Joaquina Amaya

"Corri Miguel, sbrigati, non abbiamo tutto questo tempo, dannazione, fai andare i cavalli!" Ero notevolmente nervosa, ma dopotutto, era una fuga in piena regola. La carrozza sembrava volare sulla strada, e i numerosi sbalzi mi tenevano all'erta: poteva arrivare la guarnigione di Lord Nicolas in ogni momento. Risi amaramente: quella prigionia forzata che mi avevano imposto entro le mura di Londra non era solo una punizione. Era la loro eterna soddisfazione nei miei confronti per essere riusciti a togliermi l'unica cosa che ancora mi restava: la libertà. Come è sempre stato e sempre sarà, il potere è nelle mani di pochi esseri, amministrato senza nessuna equità e giustizia, e neanche dopo la morte le cose cambiano.
Guardai le mie mani, così simili alle mani che una volta lavoravano sotto il sole; le portai alle labbra, calde per il recente pasto. Avrebbero ingannato chiunque, e nella taverna nessuno sospettava la mia vera natura: mangiavo con loro, bevevo con loro, e quando mi andava mi coricavo con loro. Dopotutto, se uccidiamo altri esseri umani, non vedo come possano esistere problemi di morale. Solo i bambini non devono essere uccisi. Mai. Uno scossone mi fece sobbalzare, riportandomi alla realtà. Le mura erano passate da un pezzo; anche questa volta i miei informatori avevano fatto centro. Lord Nicolas, dopotutto, è solo un buffone. Mi riassestai i capelli scomposti e il cuore riprese il suo battito regolare.
Quel tragitto era così penoso per me. Ricordi, troppi e dolorosi si riaffacciavano ogni anno, in quella stessa notte, nella mia mente esausta, debilitandomi nel corpo e nello spirito al solo riviverli, in tutta la loro sofferenza. Non è che fossi stata un pezzo di ghiaccio quando ero viva, ma questa sospensione tra la vita e la morte mi aveva donato un rispetto ancora più grande, sconosciuto agli uomini, per ogni tipo di sofferenza. Forse chi tanto ha sofferto sopporta poco di rivedere i propri dolori, anche se in altre persone.
La campagna si fece più rada: stavamo per raggiungere il villaggio dove ero nata, più di un secolo fa, nell'anno del signore 1076. Villaggio…certo ormai di villaggio non si poteva più parlare, dopo l'orrendo rogo sfuggito al controllo del secolo scorso. Ormai ci sono solo ammassi di resti carbonizzati, che nessuno, per timore o per ribrezzo, ha mai deciso di rimuovere. Così, come per me, ogni cosa si è fermata a quell'ultima notte, quando tutta la mia vita si arrestò per mai più riprendere a scorrere. I ricordi sono là, sotto le ceneri del palco delle esecuzioni, sopra quella terra che ancora non ha visto nuova erba per l'ustione così profonda ancora non risanata.
In quel momento la carrozza si fermò; mi affacciai, e Miguel, costernato, mi fece segno poco più avanti. Un albero era di traverso al sentiero, e in quelle condizioni era impossibile continuare. Scesi per decidere il da farsi, guardandomi intorno. Miguel mi osservava estasiato, come sempre del resto; e non era solo il mio sangue ad operare questa devozione nei miei confronti. Mi amava, e più volte me ne aveva dato prova. Ma neanche i suoi occhi profondi e tenebrosi potevano farmi superare quello che avevo passato, e l'unica cosa che potevo dargli era il mio "dono tenebroso"; glielo offrii per scherzo, molti anni fa, sperando scappasse a gambe levate una volta avesse visto cos'era colei che diceva di amare. Ma con mia sorpresa accettò; voleva stare con me, nel bene e nel male, anche se ormai io non credevo più in questa ridicola promessa. Ovviamente non fui così folle da dannarlo per l'eternità come invece sono io, e ne feci solo il mio ghoul; se ne sarebbe potuto andare in ogni momento. E invece è ancora con me, dopo più di cinquant'anni.
"Non preoccuparti mio bellissimo, ora ci penso io!"
Certo, essere così "necessaria", mi piaceva, eccome! Ero sempre stata un po' esibizionista, sia in vita, come attrice nella mia indimenticabile compagnia teatrale "Le chimere", sia in morte, come ballerina alla taverna: oltre ai numerosi giochetti di "prestigio" che il mio sangue dannato ora mi permetteva (illusioni, allucinazioni…chimere vere e proprie, insomma), il mio fascino stesso era l'arma che preferivo. Certo, non sempre essere al centro dell'attenzione porta vantaggi, ma questo lo scoprii col tempo.
La notte era completamente buia, senza luna; come quella famosa notte. Rabbrividii, ma cercai di concentrarmi su quello che stavo per fare. Era una cosa difficile e pericolosa, visti gli animali che stavo per richiamare; ci voleva qualcuno di molto forte per spostare quel tronco, e chi meglio di due orsi poteva farlo? Certo, gli orsi non sono animali domestici, ma non potevo fare altrimenti. Mi concentrai. Nei miei occhi chiusi si formarono le sagome di quegli animali, e con tutta la forza della mia mente li chiamai, invocandoli con la volontà, sperando che qualcuno di loro fosse nelle vicinanze. E soprattutto sperando che mi avrebbe ascoltato. Ero eccitata dal pericolo a cui andavo incontro, come se anche questa sfida mi permettesse di ascendere sempre un po' di più a quell'olimpo dove, per me, solo i forti possono stare. Miguel rabbrividì; in lontananza si sentirono dei suoni. Stavano arrivando. Le sagome erano enormi in quella notte senza luna: mi fissavano. Era fatta. Con tutta la forza della mia volontà, comandai loro di spostare il tronco; come burattini guidati da fili invisibili, eseguirono il mio comando. Poi si allontanarono in silenzio, come dopo un tributo dovuto ad un essere superiore.
Risi rumorosamente, gettando le braccia intorno al collo di Miguel; lo baciai sul collo, mordendolo lievemente. Era la nostra breve estasi, così intensa e fuggevole; proprio come l'amore umano.
Riprendemmo il viaggio. Ormai mancava poco alla radura nel bosco.
Il sangue di Miguel mi bruciò nella gola, riportandomi a ben altri piaceri, a tutt'altra vita. Il sorriso di Jonathan mi riempì l'anima, e i suoi baci appassionati rivissero per un istante ancora nella mia mente. Un soffio di vento ruppe l'incanto, un soffio che aveva il sapore del suo addio. Del suo ripudio. Del suo abbandono. Una perla rossa scivolò consumandosi sulla guancia, macchiandomi il corsetto celeste. Io…io gli avevo creduto. Avevo creduto che un nobile come lui potesse sposare veramente un'attrice di strada come me; e invece, come sempre fa la nobiltà, voleva solo un giocattolo per qualche tempo. Giusto il necessario per mettermi incinta, e poi, ormai prossima a perdere la mia attraente figura, per abbandonarmi, con la scusa di essergli stata infedele. Nessuno, nessuno di coloro che ci erano intorno mi credette. Ma dopotutto sono solo una donna, e il mondo non ci considera neanche un alito di vento all'imbrunire.
Rimasi sola, sola con il mio bambino. Dovevo lavorare per vivere; la mia compagnia teatrale era ormai lontana, e io non sapevo fare niente. Rubai. Per un lungo periodo rischiai la vita ogni ora del giorno e della notte. Poi trovai da lavorare come danzatrice in una locanda, quella che poi rilevai e che tuttora mi appartiene; mi fu facile fare innamorare di me il vecchio proprietario. Quel folle credeva veramente che lo amassi; poveri esseri umani, credono in tutto ciò che vedono, e molte volte inventano quello che vorrebbero. Ad ogni modo, quel poverino morì di crepacuore dopo pochi mesi: ed io divenni la padrona della locanda. Era un sollievo non dover più rubare per sopravvivere; anche perché poi stava per nascere il mio bambino.
Più tardi, quando Manuel, mio figlio, aveva già qualche anno, seppi che il mio amato Jonathan si era accasato con una nobildonna di una contea vicina. Ovviamente gli augurai ogni bene, per quel che poteva valere la parola di una donna.
Il viaggio stava per giungere al termine. In lontananza vidi la collina con le sue fredde costruzioni diroccate sulla cima, come scheletri insepolti che tendono invano le loro mani a quel cielo indifferente che li ha rifiutati.
Istintivamente portai la mano al collo, sul medaglione col piccolo ritratto dipinto, unico gioiello di quei tempi duri ma felici.
Il mio Manuel crebbe forte e bello: aveva i miei capelli neri, ma gli occhi erano blu cobalto come quelli del padre. Di tanto in tanto, soprattutto con la pioggia, si cospargevano di pagliuzze verdi, donando alla sua espressione il cupo fascino che in me aveva fatto impazzire innumerevoli uomini. Era irrequieto, come tutti i bambini di otto anni; giocava spesso in mezzo alla strada, con ragazzi più grandi di lui e che, come ben sapevo, si guadagnavano da vivere in modo poco etico, alterando l'altrui percezione dei propri averi: rubando insomma. Ma era un bambino coscienzioso: mi fidavo di lui, e lui sapeva che doveva diventare forte e grande per proteggere la sua mamma.
Eravamo arrivati. La scarsa illuminazione rendeva difficile a Miguel camminare attraverso quei ruderi, ma io, guidata dalla mia vista soprannaturale e dall'abitudine alla frequentazione con quei luoghi, arrivai con leggerezza e velocità alla piccola lapide. Con le mani scorsi il nome del mio amore inciso nella pietra, fredda ormai quanto le mie dita stesse. Erano incise queste parole, scolpite una per una con le mie mani, con le mie lacrime di sangue:
"Mio dolce angelo, riposa in pace. Sarò sempre con te, e quando verrà il mio momento, ci riuniremo, per mai più separarci. A presto Manuel, la mamma ti ama. A.D. 1101 - 25 settembre -."
Crollai. Come ogni volta scoppiai in un pianto dirotto che mi squassava il cuore e l'anima. Miguel si allontanò, per rispettare il mio dolore.
Perché? Perché quel giorno non ho insistito perché rimanesse alla locanda ad aiutarmi?
Era arrivato il vescovo, direttamente da Roma. Era una visita importante, perché oltre all'ordine pubblico doveva riportare l'ortodossia in quella provincia sperduta da Dio, come dicevano i preti in continuazione. Il seguito episcopale ovviamente si trascinava dietro una quantità di preziosi da far radunare tutti i ladri del mondo, e in un certo senso così avvenne. Purtroppo gli amici di Manuel decisero di giocare a fare i grandi, e lo portarono con loro. Inutile dire che furono scoperti subito con le mani nei grossi scrigni del vescovo; solo che erano tutti più grandi di Manuel, e lui nella fuga rimase indietro. Fu catturato. Dissero che aveva in mano un crocefisso d'oro di grande valore, e che doveva essere punito non solo per il furto, ma cosa ancora più importante, per il sacrilegio.
Dio del cielo, se ci sei e mi ascolti, perché non hai fatto niente? Era così importante per te quel gioiello, più importante di un tuo figlio? Perché non l'hai salvato? Era solo un bambino….
Quella sera stessa fu allestito il patibolo, per i criminali da punire al cospetto di Dio: una delle forche era per il mio Manuel.
Le mie proteste furono vane, e per la seconda volta nella mia vita, nessuno volle ascoltarmi. Mi sentii come Maria di fronte al Figlio prima della crocifissione, totalmente impotente e terribilmente disperata. Manuel piangeva, si lamentava che i ferri che aveva alle mani e ai piedi erano troppo stretti, come se poi avesse la possibilità e la capacità di scappare. Continuava a chiamarmi. A strillare perché lo portassi via.
Ed io non potei fare assolutamente nulla.
Era vicino a criminali e assassini, lui, un bambino di soli otto anni. Il vescovo non fece una piega, disgustato dalla plebaglia, come ci definì con disprezzo. Vedendo mio figlio si fece il segno della croce, stupito di come Satana si fosse impossessato anche dei bambini in questi luoghi sperduti dalla misericordia.
E così morì, impiccato come una bestia. Avevo gli occhi pieni di lacrime, e il velo che si era creato sulla mia vista mi faceva credere che tutto fosse solo un sogno, e che presto mi sarei svegliata, come ogni giorno, come dopo un brutto incubo. Caddi a terra, mentre le persone intorno a me, esaltate come animali dalle morti appena avvenute sotto i loro occhi, inneggiavano il nome di Cristo, per benedire quei senza Dio appena morti.
Le ombre del giorno erano sparite da un pezzo.
Stavano cominciando le litanie della messa che il vescovo aveva deciso di dare all'aperto, di fronte a quei corpi appesi, come monito dell'inferno che aspettava tutti quelli che così si sarebbero comportati.
In quel momento vidi una figura davanti a me: inebetita alzai la testa. Un uomo sui trent'anni, vestito come uno degli attori che conoscevo così bene, mi porse la mano. Mi resi conto solo dopo che era fredda, al momento non ci badai.
"Mia bellissima Joaquina, sono così dispiaciuto per te!" disse lentamente, con un mezzo sorriso sulle labbra.
"Vorresti vendicarti?" aggiunse.
Pensai fosse un sogno. Ovviamente risposi di sì. Volevo vendicare con tutte le mie forze quel sangue innocente sparso senza motivo; era la mia unica ragione di vita in quel momento.
"Bene" disse seriamente. "Ora morirai."
Luis, così si chiamava il mio sire, come mi disse i giorni a venire, si attaccò violentemente al mio collo, in quello che poteva essere scambiato tranquillamente, in quella confusione, come un lungo bacio appassionato. Come ipnotizzata lo morsi anch'io al collo; così avvenne la mia morte e la mia resurrezione. Dopo pochi minuti mi guardò in faccia, ed io lo vidi con i miei nuovi occhi di vampiro.
"Aiutami a distruggere questi patetici ministri di Dio, ed avrai la tua vendetta".
Era affascinante, con la pelle candida e gli occhi blu, come quelli di Jonathan e di Manuel; i capelli castani, raccolti con un nastro sulla nuca, sfuggivano da più parti, circondando il suo volto di angelo demoniaco.
"Adesso guarda: penso proprio che un bell'incendio farà al caso nostro, tu che dici?" disse ridendo maliziosamente, tenendomi a braccetto come le dame della nobiltà.
Non appena finì la frase, un enorme rogo si accese dal nulla ai piedi del patibolo; la gente non fece neanche in tempo a capire quello che accadde, che già era avvolta dalle fiamme. Era strano, perché io capivo che tutto ciò era solo un'illusione; Luis disse che adesso arrivava il bello. Si allontanò di qualche passo, vicino ad un granaio, e lì appiccò un fuoco vero, preparato da chissà quanto prima.
"Beh, un po' di aiuto ci vuole, non credi?" disse sorridendo. "Ma quello che ci sarà ora sarà vero!"
Il fuoco si stava propagando ad una velocità impressionante, ma nessuno si precipitò a spegnerlo, tutti troppo impegnati a fuggire dalle fiamme false.
Il vescovo intanto stava recitando un esorcismo, pensando si trattasse di un maleficio operato da chissà quali stregoni.
Luis mi disse che se volevo vendicarmi, quello era il momento buono, altrimenti le fiamme mi avrebbero tolto ogni piacere. Non me lo feci ripetere due volte, e muovendomi ad una velocità e con una agilità che prima non avevo, con un balzo fui sul palco.
Mi avvicinai senza parlare, guardando dritto negli occhi quel lupo vestito da agnello; come se servisse, cominciò a scacciarmi come se fossi un demone, o una strega uscita da un incubo.
"E' inutile, " gli dissi "non funziona. Forse sono un demone ora, ma lo devo solo a te. Preparati a raggiungere i miei fratelli nell'inferno!"
Gli presi la testa tra le mani e la girai di scatto, sentendo un rumore secco e acuto. Poi più nulla.
Il fuoco aveva ormai devastato tutto, e quando uscii dall'incendio solo Luis ed io eravamo in piedi. Un grande rogo stava devastando il mio mondo.

La tomba mi guardava muta, facendo svanire i ricordi nella sua pietra.
Luis se ne andò dopo pochi giorni, libero come l'aria che lo aveva condotto da me. O forse perché sapeva quello che aveva scatenato.
Infatti, il vescovo massacrato era un ghoul del principe di Londra, Mitra, verso il quale non nutriva una grande simpatia. Le lotte tra Ventrue e Ravnos (cioè Luis) li avevano portati a farsi questi dispettucci, e così, tanto per cambiare, ci andai di mezzo io. Lord Nicolas, il reggente di Mitra, comunque non apprezzava molto il vescovo morto, trovandolo uno scomodo probabile rivale nelle grazie del principe; temeva che sarebbe potuto essere abbracciato entro breve. Sta di fatto che, contento per quella morte, si limitò, dopo avermi facilmente catturata, a confinarmi a Londra.
Mi alzai dalla tomba, distrutta come sempre quando, ogni anno, ripercorro con la memoria la mia via crucis personale.
Mi girai verso Miguel: era in silenzio e rispettosamente lontano.
"Andiamo amor mio, tra poco sarà l'alba, il mio sangue lo sente. Torniamo a casa."
Così dicendo mi avvicinai a lui; dolcemente aprì il suo mantello, per ripararmi. Forse un giorno mi fiderò di nuovo di qualcuno, e Miguel sarà il mio compagno, il mio nuovo figlio, che nessuno potrà mai più portarmi via.

- 17 Maggio 1999 -