Erano passati ormai molti anni; non so per quale motivo, fossi tornato li.
Il mio animo cercava qualcosa e sapevo che dovevo tornare dove era cominciato tutto. Lì forse avrei potuto trovare le motivazioni per continuare in eterno, uno studio che per molti aspetti, ormai mi aveva deluso.
Mi trovavo davanti al monastero, sebbene molti ricordi fossero legati a quel posto, l'odore dell' incenso che veniva bruciato dai monaci per le loro funzioni, mi riportò alla mente un posto ben più lontano: la cappella di Kernet.

Kernet, così la chiamavano i maghi, era la cappella principale di Vienna. Non avevo mai visto luogo più affascinante, sicuro, segreto, pieno di testi antichi ed oggetti bizzarri.
Come molte altre cose, alla fine mi ci abituai, ma il primo impatto con quella cappella, arsa dall'incenso dei suoi studiosi, per i miei sensi ultra sensibili fu traumatica. Per questo episodio Samuel si burla ancora di me e rimbombano ancora nelle mie orecchie, le sue parole: "Allora Armand, tanto hai fatto per entrare ed adesso sei trattenuto da un po’ di fumo?"
Conobbi Samuel a Vienna. Venni a conoscenza di una biblioteca che permetteva la visita anche oltre l'orario consueto; una biblioteca che a causa di un vecchio contratto con un signore locale, evidentemente suo finanziatore, doveva tenere aperto la sera per almeno due giorni la settimana. Naturalmente non era aperta a tutti. Per mia fortuna i monaci, soprattutto a Vienna sono molto rispettati, così, un vecchio locandiere che aveva notato le mie preferenze per la vita notturna, m’informò dell'insolita apertura.
Come detto, sono un monaco, e non mi furono fatti problemi per entrare; anzì fu proprio l'eccessiva facilità con cui guadagnai l'entrata ad insospettirmi. Possibile che una guardia, non faccia domande ad uno straniero che vuole entrare di notte in un edificio che contiene numerosi oggetti di valore, e possibile che non si sia sorpreso minimamente neanche del mio aspetto? Forse fu quello, il fatto di essere stato ignorato in quel modo, mi aveva infastidito più dei mille sguardi di sorpresa/terrore a cui ormai ero abituato.

La guardia era magra, la pelle aderente al viso, che evidenziava, un grande naso dalla forma irregolare, gli occhi erano tondi e vuoti; nel complesso mi ricordava le caricature di alcuni artisti francesi. Attorno a lui l'energia non era umana, le frequenze del suo corpo avevano un intensità troppo alta, non era umano, era lo schiavo di qualche vampiro. Fino ad allora, seguendo il consiglio del mio Signore avevo sempe evitato il contatto con altri fratelli; ma adesso volevo conoscere la persona che rendeva pubblica la conoscenza per noi cainiti, quella persona, era molto probabilmente un vampiro, ed ancora più probabilmente era il signore di quel ghoul.
Sono un tipo curioso, ed ormai volevo scoprire come stavano le cose.
Tale curiosità, però, non era solo mia, e se ero giunto fin lì non era per caso, come scoprii più tardi, ma dal primo momento in cui arrivai a Vienna fui seguito ed abilmente condotto ad arrivare fino a quella biblioteca.
Il palazzo era bellissimo, stavo salendo la scala di marmo, attraverso due file laterali di statue di bronzo che fungevano da ringhiera.
Le scale terminavano in un lungo salone, ricoperto ai lati di pannelli di legno intarsiati in oro e contornati da ricchi tessuti rossi.
Sulle pareti scoperte erano appesi splendidi quadri ed arazzi; la luce era tenue, garantita da numerose candele diffuse per tutto il palazzo.
Ancora prima che i miei sensi potessero avvertirmi, sentii quell’ inconfondibile vibrazione, quel fremito nel sangue causato soltanto dalla presenza di un fratello, quasi il nostro liquido vitale volesse fuoriuscire per riunirsi in un’unica forma originale.
Infatti, poco dopo vidi davanti a me un giovane, dai movimenti agili e veloci, ma al tempo stesso estremamente eleganti. La sua bellezza, aveva l’innocenza di un fanciullo, e se non fosse stata per l’enorme potenza emanata dalla sua aurea, lo si sarebbe erroneamente sottovalutato.
In maniera estremamente cordiale si presentò, mi disse di chiamarsi Samuel, e di appartenere al clan Tremere.
Rimasi estremamente affascinato da quella persona, conosceva moltissime cose, e molte me ne poteva insegnare; per più di due anni rimasi a Vienna con lui. Nacque una forte amicizia, come non potevo immaginare potesse nascere tra dei vampiri, e neanche tra degli umani.
Il momento per me più importante fu quando, ormai deciso a ripartire mi mostrò un passagio segreto nella biblioteca e mi svelò l’esistenza di Kernet, la cappella Tremere.
Li mi furono insegnati numerosi segreti, e Samuel stesso mi insegno la disciplina chiamata Taumaturgia.
Nacque un problema, Samuel anche se era il capo della congrega di Vienna, non poteva mettermi a conoscenza di certe cose, così per far rientrare l’accaduto nelle rigide regole del loro clan, prima di partire fui costretto a giurare fedeltà all’alleanza Ciclopica.
Adesso sono alla porta del monastero di Padre Malvaux, ma inspiegabilmente non riesco a sentire la sua presenza.
In pochi minuti e senza difficoltà riesco ad entrare nel monastero, raggiungo le stanze segrete di Malvaux. La camera è in ordine, ma piena di polvere. Da parecchio tempo Malvaux non è più quì. Dov' è? Rovistando la stanza riesco a trovare alcuni scritti, alcune miniature e degli amuleti; tutti hanno in comune una cosa: vengono o hanno a che fare con l’Egitto.
Forse Malvaux ha lasciato li quelle cose perché voleva farmi sapere indirettamente dove si era rifugiato; non avrebbe potuto dirmelo apertamente, poiché l’Egitto dominato dai Setiti era considerato da noi Cappadoci una terra di tradimenti e perdizione.
Decido di raggiungere anche la mia stanza. E’ rimasta così, come l’avevo lasciata. Sulla scrivania c’è ancora la lettera che parecchi anni prima avevo scritto per Fra Mario, ma che non avevo mai avuto il coraggio di spedire. La riprendo tra le mani, soffiando tolgo lo strato di polvere che l’aveva ricoperta: " Ho trenta anni e sono morto".
Questo è l’assurdo della mia situazione, sono un morto che può interagire con voi mortali.
Non sono morto neanche da due giorni e già sono passati cinque anni, e adesso mi trovo nella mia cella, ottenuta con il sangue e l’inganno, perfettamente conscio della mia situazione e per nulla dispiaciuto del dono che mi è stato fatto.
Questo era il secondo dono fattomi in trenta anni di vita, il primo era stato di mia madre diciannove anni prima, quando vendendo l’ultimo ricordo di una nobile esistenza, permise a me quarto figlio di una povera famiglia contadina di seguire gli insegnamenti di un frate, fortuna permessa solo ai giovani rampolli di una società troppo viziata per comprendere appieno l’opportunità concessa loro.
Proprio uno di questi stupidi esseri fu il mio compagno di studi per più di anno.
Marco aveva diciotto anni era un prete novizio, ed era stato obbligato da suo padre, barone delle terre per le quali lavoravano i miei fratelli, a seguire per un anno gli insegnamenti del frate, così da prepararlo ai duri esami che avrebbe in seguito dovuto sostenere per accedere al monastero di padre Malvaux, primo passo per la carriera ecclesiastica che la sua famiglia aveva scelto per lui.
Per un anno dovetti subire gli sberleffi destinati ad un povero che voleva ragionare come un ricco, ma cosa che mi faceva odiare di più Marco era che per colpa della sua ignoranza eravamo obbligati a ripetere le cose almeno dieci volte prima che le capisse, ed ogni ripetizione significava per me uno spreco di tempo inestimabile, perché solo un anno mi era stato concesso per imparare, prima di dover tornare a lavorare nei campi.
Fu frate Mario a consigliarmi di partecipare all’esame per entrare nel monastero: secondo lui avevo una grande intelligenza e Dio non avrebbe permesso che venisse sprecata per seminare i campi.
Ero entusiasta, mancavano ormai solo due settimane prima che l’incaricato del monastero venisse ad esaminarci. Il prestigio del monasetro di Padre Malvaux, derivava dal fatto che in un anno era concesso solo ad un fortunato in tutto il paese, di accedere ai preziosi insegnamenti. Naturalmente il fatto che partecipassi all’esame preoccupò molto il povero Marco, conscio di non aver alcuna possibilità contro di me.
Qualche giorno dopo, venne a farci visita presso la casa dove eravamo ospiti del Frate, il padre di Marco; dalla nostra stanza potevamo udire distintamente il barone adirarsi ed irridere il frate per avere avuto la stupida idea di lasciar partecipare uno stolto contadino a qualcosa che Dio aveva destinato soltanto alle persone elette, persone che non erano cresciute nei campi dormendo sotto tetti di paglia.
Qualsiasi tentativo di frà Mario di ribattere le assurde motivazioni del Barone fu vano, ma pur non riuscendo a convincere il Barone che se veramente Dio avesse voluto far trionfare suo figlio nulla comunque lo avrebbe potuto impedire, coraggiosamente non cambiò la sua decisione nei miei confronti.
Mi sentivo preparato, ero eccitatissimo: non riuscivo a dormire all’idea della svolta che poteva aver la mia vita dopo quel giorno; la carriera ecclesiastica non faceva per me, ma mi avrebbe dato la possibilità di dedicare tutta la mia vita allo studio ed alla ricerca.
La tensione ed il sonno erano in lotta con i miei occhi, così, stressate dalla lunga battaglia, le mie palpebre caddero. Credo che passò meno di un minuto quando mi sentii soffocare; qualcuno mi stava chiudendo la bocca per non farmi urlare, mentre altre figure mi avevano già cinto i polsi e le caviglie trascinandomi verso la finestra; un velo di sangue mi velo gli occhi come fosse un sipario alla fine di un macabro spettacolo teatrale.
Mi risvegliai non so quanto tempo dopo, in quello che doveva essere un pozzo; non capivo cosa poteva essere successo, ma con il passare dei minuti si formò troppo facilmente il motivo per il quale mi trovavo prigioniero, e perché quella notte Marco non era in camera a dormire.
Non poteva essere una coincidenza, non credo alle coincidenze, e perché poi dovevo venire rapito?
Non ero io il rampollo di una ricca famiglia alla quale poter chiedere un ricco riscatto; era anche una coincidenza che mi avessero rapito proprio la sera prima dell’ esame?
Ogni possibile dubbio scomparve quando verso l’ora sesta del nuovo giorno venni liberato.
Sentii crescere in me la rabbia e l’odio. Il mio sangue ribolliva, la mia mente era solo intenta nel pensare quale sarebbe stato il modo più doloroso per uccidere Marco, e magari anche suo padre.

Per fortuna la strada che dovetti percorrere fu molta, abbastanza perchè la ragione potesse riprendere il sopravvento sulla "bestia"; repressi l’impulsività che mi avrebbe portato a sfracellare il cranio di Marco contro il sasso che mi sorpresi di stringere in mano. Cercai di rischiararmi la mente, per trovare una possibile vendetta che mi avrebbe permesso di trarre vantaggio da questa situazione.
Mi tornò alla mente un elemento importantissimo: frate Mario ci aveva raccontato che chi teneva l’esame era sempre un prete che aveva finito il suo percorso formativo e che quindi dopo essere tornato al convento per comunicare l’esito della prova, avrebbe preso la strada per la sua missione in qualche paese. Questo ricordo si trasformò in piano, e la vendetta fu così pianificata.
Decisi di far finta di nulla e di aspettare la partenza di quel povero idiota.
Esitai soltanto quando il barone venne a trovarci nuovamente per congratularsi con il figlio; fino ad allora non avevo mai provato così tanto odio. Quando il barone ebbe finito di lodare le capacità del figlio, ormai sulla porta si voltò, e con un ghigno di soddisfazione mi disse: "..povero Armand, mi dispiace veramente tanto." – prese una moneta dalla tasca e continuò – " fra’ Mario aveva ragione, Dio non avrebbe mai permesso ad un villano di entrare in un monastero così rinomato" – poi ridendo sonoramente mi lanciò la moneta ed ormai sulla porta concluse: " Tieni, questo dovrebbe bastare per un mese di lavoro nei miei campi".

Riuscii a tacere solo grazie all’idea della mia prossima vendetta.
Da frate Mario venni a conoscenza dei dettagli relativi al viaggio di Marco verso il monastero; in segreto preparai la mie cose, ero pronto per il "grande giorno". Non capii se frate Mario aveva intuito quello che volevo fare, comunque non mi disse nulla.
La sera, in segreto, uscii di casa. Camminai per tutta la notte; finalmente all’alba mi appostai dove Marco ed il suo cavallo sarebbero stati obbligati a rallentare per intraprendere il guado del fiume.
Sarà stata ormai l’ora terza, quando sentii l’inconfondibile tonfo degli zoccoli di un cavallo; per fortuna era lui e per fortuna era solo. Appena arrivò sul bordo del fiume agii come già quella notte aveva agito mille volte la mia fantasia; in meno di un secondo gli fui addosso, lo scaraventai giù dal cavallo e gli infilai la spada nel petto prima che la sua bocca avesse il tempo di dare forma a qualsiasi smorfia di dolore.

Tutto il resto non è degno di nota; arrivai al convento dove fui padre Marco per i primi tempi, per poi riprendere il nome "ecclesiastico"di Armand.
Furono quattro bellissimi anni di crescita del sapere, durante i quali i miei sogni divennero realtà; anche qui fui sempre uno tra i più brillanti e meritevoli dei novizi.
Un giorno qualcuno mi venne a cercare: era frate Mario. Come mi raccontò in seguito, non aveva avuto il coraggio di farsi vivo prima, viste le nefaste notizie a lui giunte.
Come avevo intuito, Frà Mario era stato sempre a conoscenza delle mie intenzioni e le aveva rispettate. Purtroppo, nei miei ricordi la sua venuta è legata alle drammatiche notizie che mi portò.
Quando venne trovato il corpo di Marco, il Barone mi mandò a cercare; non trovandomi decise di giustiziare i miei fratelli, bruciare la mia casa e portare nel suo castello la mia bellissima madre. Credo che le mura del convento tremarono davanti alla mia ira, se ci fossero stati dei demoni nascosti nelle misteriose cripte, avrebbero fatto bene a scappare.
Mi sentivo in colpa: come avevo potuto non prevedere le conseguenze del mio atto, perché non avevo avuto il coraggio di affrontare anche il barone? Riflettendo non era stata la paura a fermarmi, ma avevo preso la decisione che mi avrebbe permesso di ottenere quello che volevo, ignorando le conseguenza logiche. Rimasi turbato, incapace di qualsiasi reazione, quando capii che in fondo avevo sempre conosciuto quali sarebbero potute essere le conseguenze; il mio inconscio aveva solo fatto finta di ignorarle, ma all’epoca, la vita di qualsiasi persona non valeva l’opportunità di entrare nel monastero.
Le persone a cui tenevo di più, erano state uccise e violentate a causa mia; non avevo scelta, anche se erano passati quasi quattro anni, dovevo lasciare il monastero per concludere quello che per convenienza non avevo voluto fare.
Improvvisamente, frà Mario cadde svenuto. La porta si aprì lentamente, e rivelata unicamente dal cigolio della porta, una maestosa figura, uscì dalle ombre del corridoio, rivelando un innaturale splendore.
Un uomo sulla quarantina stava ora davanti a me: la pelle liscia e perfetta, di un candore che rifletteva la luce rendendo quasi difficile osservarlo direttamente a causa del riflesso prodotto. La sua presenza mi calmò, ero estasiato, come un marinaio rapito dal canto delle sirene; rimasi ad osservarlo per un tempo imprecisato. Tornai in me quando osservai i suoi occhi: la loro vista mi procuro un fremito di puro terrore che non riuscii a trattenere.
L’uomo se ne accorse, e con una voce suadente ed imperiosa al tempo stesso mi disse: " Non temere Armand, non mi conosci? Sono padre Malvaux."
Padre Malvaux! In quattro anni non ebbi mai modo di conoscerlo; anzi penso che nessun novizio l’abbia mai conosciuto. Nel monastero il suo nome era sinonimo di mistero; di giorno non si faceva mai vedere: si narrava che portasse avanti i suoi studi in un ala riservata del monastero.
Perché adesso era venuto da me? Perché sapeva il mio nome e mi parlava come si parla ad un amico?

Malvaux, intanto aveva richiuso la porta, e senza che me ne accorgessi si era seduto sulla poltrona della mia cella.
Si mise a giocare con una candela, ed infine la spense con la mano. Il suo volto sembrò soffrire, subito dopo il viso assunse un espressione innocente, come quella di un bambino. Mi fissò, ed il suo viso cambiò di nuovo espressione; ora sembrava severo ed incollerito: "Hai ottenuto quello che volevi, ora tu, un contadino, sei il migliore tra tanti nobili…" come era possibile sapeva del mio inganno e non aveva mai detto niente, o forse mi ero immaginato tutto, non ascoltavo quello che diceva, sconvolto com’ero dalle notizie che avevo appena ricevuto, ed avevo solo immaginato quello che avrei voluto sentirgli dire. Continuò: "..anch’io non tollero simili angherie da parte dei più potenti" - " e soprattutto non ti devi sentire in colpa, siamo simili anch’io avrei fatto come tè, era la scelta giusta." - continuò:

"non andare, vendicherò io la tua famiglia, ma tu dovrai rimanere qui con me, per ottenere quello che hai sempre voluto."

-"… ma come, come fate a sapere queste cose, io…."-

-" … ti leggo negli occhi, ti leggo nella mente mio dolce Armand.."

-"No! Voglio essere io a staccare la testa di quel bastardo.."

-"Basta! Se è la testa che vuoi te la darò, ma non ti permetterò di sprecare la tua esistenza per un umano che non merita neanche di essere cibo per immortali".

- "Umano?….. Immortali?!" non capivo più niente ormai mi ero quasi convinto di stare sognando.

Padre Malvaux eruppe in una fragorosa risata -" Povero Armand, non ti preoccupare, capirai, capirai!".

Caddi addormentato.

Quando mi svegliai ero in una cella senza finestre.
Passarono tre giorni, almeno quelli furono i pasti che mi vennero portati, quando si aprì la porta che mi teneva prigioniero, e un individuo fece rotolare qualcosa nella mia cella. Mi ci avvicinai, e nell’oscurità vidi che era la testa del Barone.
Urlai! Volevo uscire, cosa avevo fatto, era forse la punizione per essere entrato nel convento con l’inganno?
Persi il conto dei giorni; la mia mente era troppo annebbiata ed il mio corpo troppo debole, quando entrarono nella cella tre creature che non avevano più niente di umano: sembravano dei lebbrosi, ad uno mancava un arto, un altro mancava la carne sulla faccia. Puzzavano di morte ed il loro ringhio mi fece gelare il sangue. Avanzarono lentamente verso di me, ebbi appena il tempo di raccogliere le poche energie rimastemi, ed una di queste creature mi afferrò la gola. Lottai forse per una vita, erano inarrestabili. Nonostante ad uno gli avessi rotto il collo, questo continuò la sua lenta missione di morte; ormai ero una maschera di sangue, le loro unghie mi avevano squarciato la pelle; i lembi di carne lasciavano ormai intravedere le mie ossa; ossa sulle quali si erano avventati con le loro zanne. Stavo morendo, volevo solo morire. I miei sogni stavano per svanire. Forse era vero Dio non avrebbe permesso ad un povero contadino di raggiungere la conoscenza.
Ormai era finita, tutte e tre le creature mi erano addosso. Chiusi gli occhi, per non vedere. Sentii colare del liquido tiepido sulla mia fronte, quando riaprii gli occhi vidi che ad una delle creature era letteralmente scoppiata la testa; ed ora la sua materia cerebrale mi stava colando lentamente in faccia. Una dopo l’altra caddero. La caduta dell’ultimo mostro, mi liberò la visuale sulla porta, c’era un’altra figura; era Malvaux.
Sorrise, e come se stesse levitando, repentinamente mi fu addosso. I suoi occhi non erano naturali, nella penombra della mia cella brillavano come stelle. Poi con una straordinaria semplicità mi disse: "Stai morendo, perderai per sempre la possibilità di conoscere tutti i misteri del mondo, ma io ti voglio aiutare, meriti di diventare come me; meriti il dono oscuro!".

"Dono oscuro?"- dissi, la testa mi faceva male volevo solo riposare.

" Si posso farti diventare immortale, sarai un figlio prediletto di Dio, ed avrai l’eternità per conoscere tutte le cose che ti affascinano."-

Non avevo nulla da perdere, niente sembrava reale ormai, e per quanto mi pareva assurdo tutto quello che sentii, accettai.

Quando mi risvegliai era sera, ed ero sempre nella mia cella. Era stato dunque solo un sogno? Si un brutto sogno, non avevo alcun segno di quelle bestie che avevo sognato; ma perché continuavano a rieccheggiarmi nella mente le parole di padre Malvaux ? Avevo sognato anche lui?
Per il resto della notte non riuscii a riaddormentarmi, non avevo assolutamente sonno. Ma c’era un altro motivo: in tutta la mia vita non avevo mai fatto caso a le tante piccole cose che ora invece mi parevano così palesi: lo scricchiolare del legno del mio letto, le migliaia di sfumature che circondano la luna formandone l’alone, le centinaia di insetti e animali che cantano nella notte.
Il tempo passava, ed io continuavo ad non avere sonno; ma con l’avvicinarsi dell’alba sentivo l’assoluta necessità di andarmi a coricare; mai in vita mia avevo avuto un istinto così forte, ma dovevo resistere. Alle sei ci saremmo dovuti trovare tutti per le orazioni del mattino, non potevo assolutamente mancare.
Era un’altra però la cosa che mi sconcertava: mi sentivo vuoto, avevo una "sete" non saziabile normalmente, e l’aver provato a bere dell’acqua servì soltanto a farmi sentire peggio. Vomitai.

Qualcosa mi bruciava dentro e non ero capace di intuire cosa mi avrebbe aiutato a sentirmi meglio, mi misi a meditare aspettando l’alba, per non sentire il dolore crescente dentro di me.
Non aspettai molto; vidi la notte sparire come mai l’avevo vista. La luce per quell’attimo che ebbi la forza di vederla era magnifica, scintillante di mille sfumature dall’azzurro al rosso; caddi a terra la pelle inizio a sciogliersi, il sangue a bollire, scappai sotto il letto, senza la forza di muovermi.
Per fortuna entrarono due frati nella mia cella, mi coprirono con una coperta e mi portarono via. Pensavo di essere morto, cosa che in realtà, pensai per lungo tempo. Era quella la morte?
La mia mente era scollegata dal corpo, sentivo tutto e riuscivo anche a vedere, non con gli occhi ma con la percezione dell’anima. Il corpo era ridotto ad una massa informe di carne bruciata, gli occhi erano chiusi e non avrei potuto muovere neanche il più piccolo muscolo, non sentivo battere il cuore e neanche un soffio usciva dalla mia bocca. Era l’inferno? Ero sicuro di essere stato seppellito, sentivo l’opprimente presenza di una cassa intorno a me. Io, la mia anima, o quello che era rimasto dopo la morte fisica, era stata dunque condannata a condividere l’esperienza di morte del corpo. Una cosa l’ebbi imparata: l’anima dopo il decesso sopravvive, ma nel mio caso sarebbe stato meglio se fosse morte. Sentivo chiaramente ogni suono sopra di me, sapevo d’essere due o tre metri sottoterra. Percepivo i vermi che mi scavavano attorno, così come i preti che pregavano sopra di me.

L’unica mia compagnia era il mio pensiero, ed inutile dirlo ebbi moltissimo tempo per filosofeggiare sulla vita, sulla morte e su quello che c’è dopo.
Una sera mi sentii chiamare. Era Padre Malvaux, mi tranquillizzò mi assicurò che non ero morto e che stavo solo riposando, ero in "torpore" per usare un suo termine, per cinque lunghi anni tutte le sere venne a farmi visita.
In meno di un mese mi spiegò per filo e per segno cosa mi era accaduto, cosa ero diventato. Capii cosa era la mia sete, e perché riuscivo ad udire e vedere come mai avevo fatto prima. Diventando vampiro, questo ero diventato, oltre ai sensi era aumentata anche la mia resistenza fisica; ed avrei potuto anche acquisire nuovi poteri che disse, non potevo neanche immaginare. Tra questi poteri, avevo nel sangue "mortis", disciplina del nostro clan, il clan dei Cappadoci.

Malvaux m’insegno anche molte cose sugli antidiluviani e sul nostro progenitore.
Secondo quanto disse malvaux, mi ci sarebbero voluti quindici anni per risvegliarmi; ne passarono solo cinque, quando sentii sopra di me qualcuno scavare, rompere il coperchio della mia bara e tirarmi fuori. Era Malvaux, si taglio il polso e mi fece colare sulle labbra il suo sangue; come d’incanto la mia bocca si animò. Iniziai a deglutire quel dolce nettare, i miei occhi si aprirono, ero in piedi e ne volevo ancora.
Passai altri due mesi nelle camere di Malvaux; mi faceva avere ogni sera una donna per soddisfare la mia sete, e in quei due mesi m’insegnò ad uccidere. Gli chiesi perché mi dava da bere solo donne, la risposta che credevo contenesse chissà quale mistero era invece semplicissima; gli uomini servono per lavorare, ed un lavoratore anemico, non rende.
Questi due mesi segnarono però, la mia vita di vampiro. Bere solo sangue di donna per così tanto tempo, creò nel mio organismo una sorta di meccanismo, per il quale fui portato a tollerare solo il loro caldo e sensuale fluido vitale. Il sangue maschile mi disgustava, non riuscivo ad assimilarlo.
Passai un po' di tempo nel quale Malvaux, mi insegnò quello che per vari motivi non aveva potuto spiegarmi solo a parole; poi partì, solo adesso incominciava il mio percorso verso la conoscenza.
Girai le più importanti capitali, ed in ognuna potevo contare su un rifugio cappadocio, dove studiare nuovi codici.

Caro Mario non ti parlerò di altro, anzi devo ancora valutare se spedirtela, non posso rischiare che le cose che ho scritto vengano diffuse; l’ignoranza dei fatti, in questo caso, potrebbe salvarti la vita."
Presi la lettera e l’accostai alla candela, del mio passato non rimase così altro che cenere.
Dovevo ritrovare Malvaux! Dovevo capire se la lettera che mi chiedeva di andare a Londra da Mitra era stata veramente scritta da lui; ma ormai il tempo stringeva, non avevo tempo di ritrovare Malvaux per chiderglielo, dovevo partire.