Erano
passati ormai molti anni; non so per quale motivo, fossi tornato li.
Il mio animo
cercava qualcosa e sapevo che dovevo tornare dove era cominciato tutto.
Lì forse avrei potuto trovare le motivazioni per continuare in eterno,
uno studio che per molti aspetti, ormai mi aveva deluso.
Mi trovavo davanti
al monastero, sebbene molti ricordi fossero legati a quel posto, l'odore
dell' incenso che veniva bruciato dai monaci per le loro funzioni, mi riportò
alla mente un posto ben più lontano: la cappella di Kernet.
Kernet, così
la chiamavano i maghi, era la cappella principale di Vienna. Non avevo
mai visto luogo più affascinante, sicuro, segreto, pieno di testi
antichi ed oggetti bizzarri.
Come molte altre
cose, alla fine mi ci abituai, ma il primo impatto con quella cappella,
arsa dall'incenso dei suoi studiosi, per i miei sensi ultra sensibili fu
traumatica. Per questo episodio Samuel si burla ancora di me e rimbombano
ancora nelle mie orecchie, le sue parole: "Allora Armand, tanto hai fatto
per entrare ed adesso sei trattenuto da un po’ di fumo?"
Conobbi Samuel
a Vienna. Venni a conoscenza di una biblioteca che permetteva la visita
anche oltre l'orario consueto; una biblioteca che a causa di un vecchio
contratto con un signore locale, evidentemente suo finanziatore, doveva
tenere aperto la sera per almeno due giorni la settimana. Naturalmente
non era aperta a tutti. Per mia fortuna i monaci, soprattutto a Vienna
sono molto rispettati, così, un vecchio locandiere che aveva notato
le mie preferenze per la vita notturna, m’informò dell'insolita
apertura.
Come detto,
sono un monaco, e non mi furono fatti problemi per entrare; anzì
fu proprio l'eccessiva facilità con cui guadagnai l'entrata ad insospettirmi.
Possibile che una guardia, non faccia domande ad uno straniero che vuole
entrare di notte in un edificio che contiene numerosi oggetti di valore,
e possibile che non si sia sorpreso minimamente neanche del mio aspetto?
Forse fu quello, il fatto di essere stato ignorato in quel modo, mi aveva
infastidito più dei mille sguardi di sorpresa/terrore a cui ormai
ero abituato.
La guardia era
magra, la pelle aderente al viso, che evidenziava, un grande naso dalla
forma irregolare, gli occhi erano tondi e vuoti; nel complesso mi ricordava
le caricature di alcuni artisti francesi. Attorno a lui l'energia non era
umana, le frequenze del suo corpo avevano un intensità troppo alta,
non era umano, era lo schiavo di qualche vampiro. Fino ad allora, seguendo
il consiglio del mio Signore avevo sempe evitato il contatto con altri
fratelli; ma adesso volevo conoscere la persona che rendeva pubblica la
conoscenza per noi cainiti, quella persona, era molto probabilmente un
vampiro, ed ancora più probabilmente era il signore di quel ghoul.
Sono un tipo
curioso, ed ormai volevo scoprire come stavano le cose.
Tale curiosità,
però, non era solo mia, e se ero giunto fin lì non era per
caso, come scoprii più tardi, ma dal primo momento in cui arrivai
a Vienna fui seguito ed abilmente condotto ad arrivare fino a quella biblioteca.
Il palazzo era
bellissimo, stavo salendo la scala di marmo, attraverso due file laterali
di statue di bronzo che fungevano da ringhiera.
Le scale terminavano
in un lungo salone, ricoperto ai lati di pannelli di legno intarsiati in
oro e contornati da ricchi tessuti rossi.
Sulle pareti
scoperte erano appesi splendidi quadri ed arazzi; la luce era tenue, garantita
da numerose candele diffuse per tutto il palazzo.
Ancora prima
che i miei sensi potessero avvertirmi, sentii quell’ inconfondibile vibrazione,
quel fremito nel sangue causato soltanto dalla presenza di un fratello,
quasi il nostro liquido vitale volesse fuoriuscire per riunirsi in un’unica
forma originale.
Infatti, poco
dopo vidi davanti a me un giovane, dai movimenti agili e veloci, ma al
tempo stesso estremamente eleganti. La sua bellezza, aveva l’innocenza
di un fanciullo, e se non fosse stata per l’enorme potenza emanata dalla
sua aurea, lo si sarebbe erroneamente sottovalutato.
In maniera estremamente
cordiale si presentò, mi disse di chiamarsi Samuel, e di appartenere
al clan Tremere.
Rimasi estremamente
affascinato da quella persona, conosceva moltissime cose, e molte me ne
poteva insegnare; per più di due anni rimasi a Vienna con lui. Nacque
una forte amicizia, come non potevo immaginare potesse nascere tra dei
vampiri, e neanche tra degli umani.
Il momento per
me più importante fu quando, ormai deciso a ripartire mi mostrò
un passagio segreto nella biblioteca e mi svelò l’esistenza di Kernet,
la cappella Tremere.
Li mi furono
insegnati numerosi segreti, e Samuel stesso mi insegno la disciplina chiamata
Taumaturgia.
Nacque un problema,
Samuel anche se era il capo della congrega di Vienna, non poteva mettermi
a conoscenza di certe cose, così per far rientrare l’accaduto nelle
rigide regole del loro clan, prima di partire fui costretto a giurare fedeltà
all’alleanza Ciclopica.
Adesso sono
alla porta del monastero di Padre Malvaux, ma inspiegabilmente non riesco
a sentire la sua presenza.
In pochi minuti
e senza difficoltà riesco ad entrare nel monastero, raggiungo le
stanze segrete di Malvaux. La camera è in ordine, ma piena di polvere.
Da parecchio tempo Malvaux non è più quì. Dov' è?
Rovistando la stanza riesco a trovare alcuni scritti, alcune miniature
e degli amuleti; tutti hanno in comune una cosa: vengono o hanno a che
fare con l’Egitto.
Forse Malvaux
ha lasciato li quelle cose perché voleva farmi sapere indirettamente
dove si era rifugiato; non avrebbe potuto dirmelo apertamente, poiché
l’Egitto dominato dai Setiti era considerato da noi Cappadoci una terra
di tradimenti e perdizione.
Decido di raggiungere
anche la mia stanza. E’ rimasta così, come l’avevo lasciata. Sulla
scrivania c’è ancora la lettera che parecchi anni prima avevo scritto
per Fra Mario, ma che non avevo mai avuto il coraggio di spedire. La riprendo
tra le mani, soffiando tolgo lo strato di polvere che l’aveva ricoperta:
" Ho trenta anni e sono morto".
Questo è
l’assurdo della mia situazione, sono un morto che può interagire
con voi mortali.
Non sono morto
neanche da due giorni e già sono passati cinque anni, e adesso mi
trovo nella mia cella, ottenuta con il sangue e l’inganno, perfettamente
conscio della mia situazione e per nulla dispiaciuto del dono che mi è
stato fatto.
Questo era il
secondo dono fattomi in trenta anni di vita, il primo era stato di mia
madre diciannove anni prima, quando vendendo l’ultimo ricordo di una nobile
esistenza, permise a me quarto figlio di una povera famiglia contadina
di seguire gli insegnamenti di un frate, fortuna permessa solo ai giovani
rampolli di una società troppo viziata per comprendere appieno l’opportunità
concessa loro.
Proprio uno
di questi stupidi esseri fu il mio compagno di studi per più di
anno.
Marco aveva
diciotto anni era un prete novizio, ed era stato obbligato da suo padre,
barone delle terre per le quali lavoravano i miei fratelli, a seguire per
un anno gli insegnamenti del frate, così da prepararlo ai duri esami
che avrebbe in seguito dovuto sostenere per accedere al monastero di padre
Malvaux, primo passo per la carriera ecclesiastica che la sua famiglia
aveva scelto per lui.
Per un anno
dovetti subire gli sberleffi destinati ad un povero che voleva ragionare
come un ricco, ma cosa che mi faceva odiare di più Marco era che
per colpa della sua ignoranza eravamo obbligati a ripetere le cose almeno
dieci volte prima che le capisse, ed ogni ripetizione significava per me
uno spreco di tempo inestimabile, perché solo un anno mi era stato
concesso per imparare, prima di dover tornare a lavorare nei campi.
Fu frate Mario
a consigliarmi di partecipare all’esame per entrare nel monastero: secondo
lui avevo una grande intelligenza e Dio non avrebbe permesso che venisse
sprecata per seminare i campi.
Ero entusiasta,
mancavano ormai solo due settimane prima che l’incaricato del monastero
venisse ad esaminarci. Il prestigio del monasetro di Padre Malvaux, derivava
dal fatto che in un anno era concesso solo ad un fortunato in tutto il
paese, di accedere ai preziosi insegnamenti. Naturalmente il fatto che
partecipassi all’esame preoccupò molto il povero Marco, conscio
di non aver alcuna possibilità contro di me.
Qualche giorno
dopo, venne a farci visita presso la casa dove eravamo ospiti del Frate,
il padre di Marco; dalla nostra stanza potevamo udire distintamente il
barone adirarsi ed irridere il frate per avere avuto la stupida idea di
lasciar partecipare uno stolto contadino a qualcosa che Dio aveva destinato
soltanto alle persone elette, persone che non erano cresciute nei campi
dormendo sotto tetti di paglia.
Qualsiasi tentativo
di frà Mario di ribattere le assurde motivazioni del Barone fu vano,
ma pur non riuscendo a convincere il Barone che se veramente Dio avesse
voluto far trionfare suo figlio nulla comunque lo avrebbe potuto impedire,
coraggiosamente non cambiò la sua decisione nei miei confronti.
Mi sentivo preparato,
ero eccitatissimo: non riuscivo a dormire all’idea della svolta che poteva
aver la mia vita dopo quel giorno; la carriera ecclesiastica non faceva
per me, ma mi avrebbe dato la possibilità di dedicare tutta la mia
vita allo studio ed alla ricerca.
La tensione
ed il sonno erano in lotta con i miei occhi, così, stressate dalla
lunga battaglia, le mie palpebre caddero. Credo che passò meno di
un minuto quando mi sentii soffocare; qualcuno mi stava chiudendo la bocca
per non farmi urlare, mentre altre figure mi avevano già cinto i
polsi e le caviglie trascinandomi verso la finestra; un velo di sangue
mi velo gli occhi come fosse un sipario alla fine di un macabro spettacolo
teatrale.
Mi risvegliai
non so quanto tempo dopo, in quello che doveva essere un pozzo; non capivo
cosa poteva essere successo, ma con il passare dei minuti si formò
troppo facilmente il motivo per il quale mi trovavo prigioniero, e perché
quella notte Marco non era in camera a dormire.
Non poteva essere
una coincidenza, non credo alle coincidenze, e perché poi dovevo
venire rapito?
Non ero io il
rampollo di una ricca famiglia alla quale poter chiedere un ricco riscatto;
era anche una coincidenza che mi avessero rapito proprio la sera prima
dell’ esame?
Ogni possibile
dubbio scomparve quando verso l’ora sesta del nuovo giorno venni liberato.
Sentii crescere
in me la rabbia e l’odio. Il mio sangue ribolliva, la mia mente era solo
intenta nel pensare quale sarebbe stato il modo più doloroso per
uccidere Marco, e magari anche suo padre.
Per fortuna la
strada che dovetti percorrere fu molta, abbastanza perchè la ragione
potesse riprendere il sopravvento sulla "bestia"; repressi l’impulsività
che mi avrebbe portato a sfracellare il cranio di Marco contro il sasso
che mi sorpresi di stringere in mano. Cercai di rischiararmi la mente,
per trovare una possibile vendetta che mi avrebbe permesso di trarre vantaggio
da questa situazione.
Mi tornò
alla mente un elemento importantissimo: frate Mario ci aveva raccontato
che chi teneva l’esame era sempre un prete che aveva finito il suo percorso
formativo e che quindi dopo essere tornato al convento per comunicare l’esito
della prova, avrebbe preso la strada per la sua missione in qualche paese.
Questo ricordo si trasformò in piano, e la vendetta fu così
pianificata.
Decisi di far
finta di nulla e di aspettare la partenza di quel povero idiota.
Esitai soltanto
quando il barone venne a trovarci nuovamente per congratularsi con il figlio;
fino ad allora non avevo mai provato così tanto odio. Quando il
barone ebbe finito di lodare le capacità del figlio, ormai sulla
porta si voltò, e con un ghigno di soddisfazione mi disse: "..povero
Armand, mi dispiace veramente tanto." – prese una moneta dalla tasca e
continuò – " fra’ Mario aveva ragione, Dio non avrebbe mai permesso
ad un villano di entrare in un monastero così rinomato" – poi ridendo
sonoramente mi lanciò la moneta ed ormai sulla porta concluse: "
Tieni, questo dovrebbe bastare per un mese di lavoro nei miei campi".
Riuscii a tacere
solo grazie all’idea della mia prossima vendetta.
Da frate Mario
venni a conoscenza dei dettagli relativi al viaggio di Marco verso il monastero;
in segreto preparai la mie cose, ero pronto per il "grande giorno". Non
capii se frate Mario aveva intuito quello che volevo fare, comunque non
mi disse nulla.
La sera, in
segreto, uscii di casa. Camminai per tutta la notte; finalmente all’alba
mi appostai dove Marco ed il suo cavallo sarebbero stati obbligati a rallentare
per intraprendere il guado del fiume.
Sarà
stata ormai l’ora terza, quando sentii l’inconfondibile tonfo degli zoccoli
di un cavallo; per fortuna era lui e per fortuna era solo. Appena arrivò
sul bordo del fiume agii come già quella notte aveva agito mille
volte la mia fantasia; in meno di un secondo gli fui addosso, lo scaraventai
giù dal cavallo e gli infilai la spada nel petto prima che la sua
bocca avesse il tempo di dare forma a qualsiasi smorfia di dolore.
Tutto il resto
non è degno di nota; arrivai al convento dove fui padre Marco per
i primi tempi, per poi riprendere il nome "ecclesiastico"di Armand.
Furono quattro
bellissimi anni di crescita del sapere, durante i quali i miei sogni divennero
realtà; anche qui fui sempre uno tra i più brillanti e meritevoli
dei novizi.
Un giorno qualcuno
mi venne a cercare: era frate Mario. Come mi raccontò in seguito,
non aveva avuto il coraggio di farsi vivo prima, viste le nefaste notizie
a lui giunte.
Come avevo intuito,
Frà Mario era stato sempre a conoscenza delle mie intenzioni e le
aveva rispettate. Purtroppo, nei miei ricordi la sua venuta è legata
alle drammatiche notizie che mi portò.
Quando venne
trovato il corpo di Marco, il Barone mi mandò a cercare; non trovandomi
decise di giustiziare i miei fratelli, bruciare la mia casa e portare nel
suo castello la mia bellissima madre. Credo che le mura del convento tremarono
davanti alla mia ira, se ci fossero stati dei demoni nascosti nelle misteriose
cripte, avrebbero fatto bene a scappare.
Mi sentivo in
colpa: come avevo potuto non prevedere le conseguenze del mio atto, perché
non avevo avuto il coraggio di affrontare anche il barone? Riflettendo
non era stata la paura a fermarmi, ma avevo preso la decisione che mi avrebbe
permesso di ottenere quello che volevo, ignorando le conseguenza logiche.
Rimasi turbato, incapace di qualsiasi reazione, quando capii che in fondo
avevo sempre conosciuto quali sarebbero potute essere le conseguenze; il
mio inconscio aveva solo fatto finta di ignorarle, ma all’epoca, la vita
di qualsiasi persona non valeva l’opportunità di entrare nel monastero.
Le persone a
cui tenevo di più, erano state uccise e violentate a causa mia;
non avevo scelta, anche se erano passati quasi quattro anni, dovevo lasciare
il monastero per concludere quello che per convenienza non avevo voluto
fare.
Improvvisamente,
frà Mario cadde svenuto. La porta si aprì lentamente, e rivelata
unicamente dal cigolio della porta, una maestosa figura, uscì dalle
ombre del corridoio, rivelando un innaturale splendore.
Un uomo sulla
quarantina stava ora davanti a me: la pelle liscia e perfetta, di un candore
che rifletteva la luce rendendo quasi difficile osservarlo direttamente
a causa del riflesso prodotto. La sua presenza mi calmò, ero estasiato,
come un marinaio rapito dal canto delle sirene; rimasi ad osservarlo per
un tempo imprecisato. Tornai in me quando osservai i suoi occhi: la loro
vista mi procuro un fremito di puro terrore che non riuscii a trattenere.
L’uomo se ne
accorse, e con una voce suadente ed imperiosa al tempo stesso mi disse:
" Non temere Armand, non mi conosci? Sono padre Malvaux."
Padre Malvaux!
In quattro anni non ebbi mai modo di conoscerlo; anzi penso che nessun
novizio l’abbia mai conosciuto. Nel monastero il suo nome era sinonimo
di mistero; di giorno non si faceva mai vedere: si narrava che portasse
avanti i suoi studi in un ala riservata del monastero.
Perché
adesso era venuto da me? Perché sapeva il mio nome e mi parlava
come si parla ad un amico?
Malvaux, intanto
aveva richiuso la porta, e senza che me ne accorgessi si era seduto sulla
poltrona della mia cella.
Si mise a giocare
con una candela, ed infine la spense con la mano. Il suo volto sembrò
soffrire, subito dopo il viso assunse un espressione innocente, come quella
di un bambino. Mi fissò, ed il suo viso cambiò di nuovo espressione;
ora sembrava severo ed incollerito: "Hai ottenuto quello che volevi, ora
tu, un contadino, sei il migliore tra tanti nobili…" come era possibile
sapeva del mio inganno e non aveva mai detto niente, o forse mi ero immaginato
tutto, non ascoltavo quello che diceva, sconvolto com’ero dalle notizie
che avevo appena ricevuto, ed avevo solo immaginato quello che avrei voluto
sentirgli dire. Continuò: "..anch’io non tollero simili angherie
da parte dei più potenti" - " e soprattutto non ti devi sentire
in colpa, siamo simili anch’io avrei fatto come tè, era la scelta
giusta." - continuò:
"non andare,
vendicherò io la tua famiglia, ma tu dovrai rimanere qui con me,
per ottenere quello che hai sempre voluto."
-"… ma come,
come fate a sapere queste cose, io…."-
-" … ti leggo
negli occhi, ti leggo nella mente mio dolce Armand.."
-"No! Voglio
essere io a staccare la testa di quel bastardo.."
-"Basta! Se è
la testa che vuoi te la darò, ma non ti permetterò di sprecare
la tua esistenza per un umano che non merita neanche di essere cibo per
immortali".
- "Umano?…..
Immortali?!" non capivo più niente ormai mi ero quasi convinto di
stare sognando.
Padre Malvaux
eruppe in una fragorosa risata -" Povero Armand, non ti preoccupare, capirai,
capirai!".
Caddi addormentato.
Quando mi svegliai
ero in una cella senza finestre.
Passarono tre
giorni, almeno quelli furono i pasti che mi vennero portati, quando si
aprì la porta che mi teneva prigioniero, e un individuo fece rotolare
qualcosa nella mia cella. Mi ci avvicinai, e nell’oscurità vidi
che era la testa del Barone.
Urlai! Volevo
uscire, cosa avevo fatto, era forse la punizione per essere entrato nel
convento con l’inganno?
Persi il conto
dei giorni; la mia mente era troppo annebbiata ed il mio corpo troppo debole,
quando entrarono nella cella tre creature che non avevano più niente
di umano: sembravano dei lebbrosi, ad uno mancava un arto, un altro mancava
la carne sulla faccia. Puzzavano di morte ed il loro ringhio mi fece gelare
il sangue. Avanzarono lentamente verso di me, ebbi appena il tempo di raccogliere
le poche energie rimastemi, ed una di queste creature mi afferrò
la gola. Lottai forse per una vita, erano inarrestabili. Nonostante ad
uno gli avessi rotto il collo, questo continuò la sua lenta missione
di morte; ormai ero una maschera di sangue, le loro unghie mi avevano squarciato
la pelle; i lembi di carne lasciavano ormai intravedere le mie ossa; ossa
sulle quali si erano avventati con le loro zanne. Stavo morendo, volevo
solo morire. I miei sogni stavano per svanire. Forse era vero Dio non avrebbe
permesso ad un povero contadino di raggiungere la conoscenza.
Ormai era finita,
tutte e tre le creature mi erano addosso. Chiusi gli occhi, per non vedere.
Sentii colare del liquido tiepido sulla mia fronte, quando riaprii gli
occhi vidi che ad una delle creature era letteralmente scoppiata la testa;
ed ora la sua materia cerebrale mi stava colando lentamente in faccia.
Una dopo l’altra caddero. La caduta dell’ultimo mostro, mi liberò
la visuale sulla porta, c’era un’altra figura; era Malvaux.
Sorrise, e come
se stesse levitando, repentinamente mi fu addosso. I suoi occhi non erano
naturali, nella penombra della mia cella brillavano come stelle. Poi con
una straordinaria semplicità mi disse: "Stai morendo, perderai per
sempre la possibilità di conoscere tutti i misteri del mondo, ma
io ti voglio aiutare, meriti di diventare come me; meriti il dono oscuro!".
"Dono oscuro?"-
dissi, la testa mi faceva male volevo solo riposare.
" Si posso farti
diventare immortale, sarai un figlio prediletto di Dio, ed avrai l’eternità
per conoscere tutte le cose che ti affascinano."-
Non avevo nulla
da perdere, niente sembrava reale ormai, e per quanto mi pareva assurdo
tutto quello che sentii, accettai.
Quando mi risvegliai
era sera, ed ero sempre nella mia cella. Era stato dunque solo un sogno?
Si un brutto sogno, non avevo alcun segno di quelle bestie che avevo sognato;
ma perché continuavano a rieccheggiarmi nella mente le parole di
padre Malvaux ? Avevo sognato anche lui?
Per il resto
della notte non riuscii a riaddormentarmi, non avevo assolutamente sonno.
Ma c’era un altro motivo: in tutta la mia vita non avevo mai fatto caso
a le tante piccole cose che ora invece mi parevano così palesi:
lo scricchiolare del legno del mio letto, le migliaia di sfumature che
circondano la luna formandone l’alone, le centinaia di insetti e animali
che cantano nella notte.
Il tempo passava,
ed io continuavo ad non avere sonno; ma con l’avvicinarsi dell’alba sentivo
l’assoluta necessità di andarmi a coricare; mai in vita mia avevo
avuto un istinto così forte, ma dovevo resistere. Alle sei ci saremmo
dovuti trovare tutti per le orazioni del mattino, non potevo assolutamente
mancare.
Era un’altra
però la cosa che mi sconcertava: mi sentivo vuoto, avevo una "sete"
non saziabile normalmente, e l’aver provato a bere dell’acqua servì
soltanto a farmi sentire peggio. Vomitai.
Qualcosa mi bruciava
dentro e non ero capace di intuire cosa mi avrebbe aiutato a sentirmi meglio,
mi misi a meditare aspettando l’alba, per non sentire il dolore crescente
dentro di me.
Non aspettai
molto; vidi la notte sparire come mai l’avevo vista. La luce per quell’attimo
che ebbi la forza di vederla era magnifica, scintillante di mille sfumature
dall’azzurro al rosso; caddi a terra la pelle inizio a sciogliersi, il
sangue a bollire, scappai sotto il letto, senza la forza di muovermi.
Per fortuna
entrarono due frati nella mia cella, mi coprirono con una coperta e mi
portarono via. Pensavo di essere morto, cosa che in realtà, pensai
per lungo tempo. Era quella la morte?
La mia mente
era scollegata dal corpo, sentivo tutto e riuscivo anche a vedere, non
con gli occhi ma con la percezione dell’anima. Il corpo era ridotto ad
una massa informe di carne bruciata, gli occhi erano chiusi e non avrei
potuto muovere neanche il più piccolo muscolo, non sentivo battere
il cuore e neanche un soffio usciva dalla mia bocca. Era l’inferno? Ero
sicuro di essere stato seppellito, sentivo l’opprimente presenza di una
cassa intorno a me. Io, la mia anima, o quello che era rimasto dopo la
morte fisica, era stata dunque condannata a condividere l’esperienza di
morte del corpo. Una cosa l’ebbi imparata: l’anima dopo il decesso sopravvive,
ma nel mio caso sarebbe stato meglio se fosse morte. Sentivo chiaramente
ogni suono sopra di me, sapevo d’essere due o tre metri sottoterra. Percepivo
i vermi che mi scavavano attorno, così come i preti che pregavano
sopra di me.
L’unica mia compagnia
era il mio pensiero, ed inutile dirlo ebbi moltissimo tempo per filosofeggiare
sulla vita, sulla morte e su quello che c’è dopo.
Una sera mi
sentii chiamare. Era Padre Malvaux, mi tranquillizzò mi assicurò
che non ero morto e che stavo solo riposando, ero in "torpore" per usare
un suo termine, per cinque lunghi anni tutte le sere venne a farmi visita.
In meno di un
mese mi spiegò per filo e per segno cosa mi era accaduto, cosa ero
diventato. Capii cosa era la mia sete, e perché riuscivo ad udire
e vedere come mai avevo fatto prima. Diventando vampiro, questo ero diventato,
oltre ai sensi era aumentata anche la mia resistenza fisica; ed avrei potuto
anche acquisire nuovi poteri che disse, non potevo neanche immaginare.
Tra questi poteri, avevo nel sangue "mortis", disciplina del nostro clan,
il clan dei Cappadoci.
Malvaux m’insegno
anche molte cose sugli antidiluviani e sul nostro progenitore.
Secondo quanto
disse malvaux, mi ci sarebbero voluti quindici anni per risvegliarmi; ne
passarono solo cinque, quando sentii sopra di me qualcuno scavare, rompere
il coperchio della mia bara e tirarmi fuori. Era Malvaux, si taglio il
polso e mi fece colare sulle labbra il suo sangue; come d’incanto la mia
bocca si animò. Iniziai a deglutire quel dolce nettare, i miei occhi
si aprirono, ero in piedi e ne volevo ancora.
Passai altri
due mesi nelle camere di Malvaux; mi faceva avere ogni sera una donna per
soddisfare la mia sete, e in quei due mesi m’insegnò ad uccidere.
Gli chiesi perché mi dava da bere solo donne, la risposta che credevo
contenesse chissà quale mistero era invece semplicissima; gli uomini
servono per lavorare, ed un lavoratore anemico, non rende.
Questi due mesi
segnarono però, la mia vita di vampiro. Bere solo sangue di donna
per così tanto tempo, creò nel mio organismo una sorta di
meccanismo, per il quale fui portato a tollerare solo il loro caldo e sensuale
fluido vitale. Il sangue maschile mi disgustava, non riuscivo ad assimilarlo.
Passai un po'
di tempo nel quale Malvaux, mi insegnò quello che per vari motivi
non aveva potuto spiegarmi solo a parole; poi partì, solo adesso
incominciava il mio percorso verso la conoscenza.
Girai le più
importanti capitali, ed in ognuna potevo contare su un rifugio cappadocio,
dove studiare nuovi codici.
Caro Mario non
ti parlerò di altro, anzi devo ancora valutare se spedirtela, non
posso rischiare che le cose che ho scritto vengano diffuse; l’ignoranza
dei fatti, in questo caso, potrebbe salvarti la vita."
Presi la lettera
e l’accostai alla candela, del mio passato non rimase così altro
che cenere.
Dovevo ritrovare
Malvaux! Dovevo capire se la lettera che mi chiedeva di andare a Londra
da Mitra era stata veramente scritta da lui; ma ormai il tempo stringeva,
non avevo tempo di ritrovare Malvaux per chiderglielo, dovevo partire.
|